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Lo smart working è solo l’inizio di una rivoluzione organizzativa

Il termine smart working viene utilizzato in Italia da alcuni anni per indicare una nuova modalità di lavoro che non prevede la compresenza in un determinato luogo.

Curiosamente, pur essendo la combinazione di due parole inglesi, lo si usa – per lo più in Italia – per definire quello che nel mondo anglosassone è il remote working, o flexible working, o mobile working, o ancora l’ampia categoria dei new ways of working.

È anche interessante la scelta dell’aggettivo smart, che significa intelligente ma con una sfumatura di “brillante”, “sveglio”, “svelto” e non di clever, che richiama anch’esso il concetto di intelligenza ma in questo caso più orientata all’ingegnosità, alla competenza, alle abilità logico-razionali.

Ne consegue che in questa definizione prettamente italica dello smart working è implicito un modo – per così dire – “furbo” di lavorare, a fronte del tradizionale modo di lavorare che, per contrasto, non lo sarebbe.

Com’è noto, a partire dalla rivoluzione industriale e con l’ulteriore accelerazione impressa dalla diffusione del modello dello scientific management di Frederick Taylor, si sono create forti concentrazioni di risorse umane in compresenza, specialmente nei grandi centri urbani, e anche in Italia, come in altri Paesi occidentali, negli ultimi 40 anni il progressivo passaggio dall’industria manifatturiera a quella dei servizi ha trasformato le grandi metropoli in centri direzionali con decine di migliaia di colletti bianchi che ogni mattina, nella stessa fascia oraria, affollano mezzi pubblici e tangenziali per recarsi sul posto di lavoro.

Persone che, primariamente, devono riuscire a raggiungere il posto di lavoro puntualmente o comunque in un momento all’interno della fascia oraria consentita per l’ingresso.

Da quel momento, dopo il rito della “timbratura del cartellino”, parte il calcolo delle ore di lavoro “dovute” sino alla timbratura in uscita, per poi nuovamente accalcarsi in autobus o metropolitane con capienza insufficiente oppure contribuire, più o meno consapevolmente, al grave inquinamento ambientale causato dai motori termici delle automobili ingolfate nel traffico urbano dell’ora di punta.

L’idea di poter “auto-gestire” il proprio tempo è quindi considerata “intelligente” a fronte di un modo “stupido” di obbligare tempi e spazi di lavoro, nel percepito di molti lavoratori e lavoratrici alla perenne ricerca di un equilibrio tra lavoro e vita, tra baby sitter da ingaggiare, pratiche personali da sbrigare e impegni di care-giving verso persone anziane o con disabilità appartenenti al proprio nucleo familiare.

In Italia si parla di smart working già da alcuni anni, con molte interessanti sperimentazioni sul campo. Già nel 2012 infatti, nel contesto universitario del Politecnico di Milano, era stato costituito l’Osservatorio Smart Working che ha stimolato molte ricerche su nuovi modelli di lavoro.

Ma è solo con la spinta delle conseguenze della grave pandemia da coronavirus COVID19 che è stata forzata l’adozione di formule di lavoro a distanza, a colpi di decreto con forza di legge che hanno costretto le aziende di quasi tutti i settori merceologici a imponenti sforzi organizzativi per mantenere la continuità di business abbandonando, de facto e senza preavviso, la compresenza fisica delle risorse umane.

In questa accelerazione senza precedenti verso il lavoro a distanza sono stati necessariamente privilegiati gli aspetti relativi alle dimensioni tecnologiche e giuslavoristiche.

Nel primo blocco sono stati prioritarie la fornitura di device mobili, la disponibilità di connettività sicura da remoto con Virtual Private Networks, l’adozione massiva di software collaborativi e di video-conferenza e chat, nonché la brutale sostituzione di processi tutt’ora basati su scambi di carta e firma a inchiostro con nuove modalità paperless e di firma digitale, in molti casi permesse, nello stato di emergenza, da disposizioni governative con carattere di urgenza che hanno allargato, non necessariamente in modo permanente, le maglie della compliance civilistica e regolamentare.

Il secondo blocco di interventi che hanno avuto priorità è stato quello relativo a tematiche di tipo giuslavoristico e sindacale relative al nuovo, massivo, fenomeno del lavoro a distanza.

Si è, in buona sostanza, sdoganato temporaneamente lo smart working come unico modo di lavorare, sospendendo, data la situazione di eccezionale gravità, la lunga discussione da tempo in corso tra datori di lavoro da un lato e rappresentanze sindacali dall’altro.

Le parti si sono messe al tavolo (virtuale anch’esso) per accettare lo stato di fatto e vestirlo di opportune tutele da ambo i lati, al fine di consentire un passaggio istantaneo da timidi esperimenti – che già da qualche anno esistono e sono crescenti nel panorama lavorativo – di “un giorno alla settimana”, alla totale remotizzazione dell’azienda, con il risultato che i building direzionali che sino a pochi giorni prima brulicavano di persone in coda per prendere l’ascensore alle 9 del mattino sono improvvisamente diventati cattedrali deserte.

Curiosamente i datori di lavoro e le rappresentanze dei lavoratori sono da tempo impegnate a discutere dei new ways of working partendo entrambe da una radicata diffidenza uguale ed opposta: da un lato le aziende temono che con il lavoro a distanza venga meno il controllo dei manager e quindi i dipendenti lavorino meno, dall’altro i loro rappresentanti temono che con la perdita dei confini temporali, ben delimitati dai cartellini da timbrare, i dipendenti finiscano per lavorare di più.

E’ un dibattito, al quale ho partecipato nel mio precedente ruolo di CEO di una Compagnia di Assicurazioni, che va secondo me riletto e riscontrato nella prospettiva delle più recenti fonti in ambito di psicologia organizzativa e di progettazione di nuovi archetipi organizzativi.

L’evoluzione tecnologica e l’avanzamento delle dinamiche giuslavoristiche e sindacali appena citate costituiscono infatti una condizione necessaria ma non sufficiente per la definizione di nuovi paradigmi organizzativi che si dimostrino più adatti, quando non forse indispensabili, per la sopravvivenza aziendale in un futuro che oggi – e sempre più a breve termine – appare, per dirla con Baumann, molto liquido.

Dovranno essere messe in discussione molte delle dinamiche delle aziende tradizionali, oggi di gran lunga prevalenti, basate su gerarchizzazione, potere decisionale accentrato, relazione 1 a 1 tra persona e ruolo.

Dovranno essere elaborati nuovi modelli di self-management, a partire dalla Self Determination Theory di Deci e Ryan, in cui le persone possano sempre più diventare i primi agenti causali del proprio successo professionale e del proprio equilibrio esistenziale.

Dobbiamo immaginarci come cambia la leadership in un’azienda in cui le relazioni interne ed esterne saranno sempre più peer-to-peer, agevolate dalla dematerializzazione degli spazi e dal dissolvimento delle barriere temporali.

Dobbiamo dare un nuovo significato a due concetti chiave: il trust verso i colleghi da un lato, e l’accountability di questi ultimi dall’altro, a fronte di ciò che non sarà più una delega spesso timida e ipercontrollata ma un vero e proprio decentramento di responsabilità.

In breve, serve un profondo ripensamento della relazione Persona-Organizzazione, per uscire dal concetto dello smart working in senso stretto e contribuire alla definizione di un archetipo molto più olistico di Smart Organization.

Nella categoria Smart Organization trovi molti articoli che affrontano appunto queste tematiche.

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